Qualche dubbio c'era anche venuto,
ma ora ne abbiamo una precisa conferma: chi suona è diverso... o per meglio dire, ha una mente diversa. Un studio condotto su un gruppo di studenti del Vanderbilt Blair School of Music ha permesso infatti di stabilire come la pratica musicale professionale abbia un ruolo anche nella modalità di risoluzione dei problemi della vita quotidiana.
Negli ultini anni la relazione tra musica e cervello è diventata oggetto di studio di numerosi neuroscienziati di tutto il mondo che utilizzano gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie per la risoluzione di patologie neurodegenerative. La domanda che si sono posti i ricercatori della Vanderbilt University mirava invece a conoscere come la musica influenzi effettivamente il cervello, o viceversa.
Per questo sono stati sottoposti ad un test cognitivo venti studenti di musica classica del Vanderbilt Blair School of Music insieme ad altrettanti studenti di psicologia dello stesso istituto. Contemporaneamente, con una tecnica chiamata spettroscopia nel vicino infrarosso, è stata misurata l ossigenazione del sangue nella corteccia.
Dal confronto è emerso che gli studenti di musica utilizzano entrambi gli emisferi del cervello, molto più di quanto non facciano gli altri. Questo comporta una diversa modalità di pensiero detta "pensiero divergente" che consiste nel considerare le cose da punti di vista alternativi, non usuali, che è ritenuta alla base della creatività e che si traduce in un Qi più elevato.
Gli studiosi ritengono che ciò sia dovuta alla pratica musicale. Suonare uno strumento richiede infatti lo sviluppo di capacità come l'indipendenza di entrambe le mani e dita, oltre a precise e immediate risposte e sincronismi in seguito a stimoli visivi o uditivi. Queste funzioni, normalmente collegate ad emisferi del cervello diversi, nei musicisti sono invece integrate e rimangono collegate anche in risposta a situazioni non musicali nella vita di tutti i giorni.
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