di Pietro Treccagnoli
NAPOLI (28 dicembre 2010) -
Il Gesù Nuovo non è solo un capolavoro dell’arte barocca che nei secoli ha sedotto studiosi e viaggiatori. Non è solo il tempio di una fede che da controriformistica si è trasformata in schietta devozione popolare. Non è neanche solo una cartolina di Napoli che, anni fa, finì sul retro
delle diecimila lire. Non è nemmeno il semplice contraltare dell’ascetico e gotico monastero di Santa Chiara. È questo, ma è anche un pentagramma a cielo aperto, con una musica scolpita nella facciata e finalmente decifrata da uno storico dell’arte, Vincenzo De Pasquale, 55 anni, con la
passione per il misterioso Rinascimento napoletano, quello vero e non quello posticcio dell’ultimo quindicennio.
La sua indagine, cominciata nel 2005, insieme a Salvatore Onorato che l’ha aiutato nei sopralluoghi, assomiglia, ma senza i delitti connessi, a quella del «Codice da Vinci» e spazia dall’ Italia all’Ungheria, dal cuore sacro di Napoli ai trompe-l’oeil rococò di Eger, cittadina magiara quasi
ai confini con l’Ucraina. La scoperta ha del clamoroso. In breve, i segni che sono
incisi sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo non sono altro che la partitura di un concerto per strumenti a plettro (mandole e affini).Infatti a osservare bene le pietre nere vulcaniche si scoprono dei segni di circa dieci centimetri. «Finora si è pensato che fossero i simboli delle diverse cave di piperno dalle quali provenivano» spiega De Pasquale, mostrando un largo foglio che riproduce pietra per pietra la facciata della chiesa.
«Sono invece delle lettere aramaiche. L’aramaico era la lingua parlata da Gesù. Sono solo sette segni e ognuno corrisponde a una delle note». Lette in sequenza da destra a sinistra, guardando la chiesa, dall’edificio del liceo pedagogico Fonseca a quello del liceo classico Genovesi, e dal basso
verso l’altro, le incisioni, tradotte in note, compongono una musica della durata di quasi tre quarti d’ora. Sul significato delle scritte sulle bugne, in passato, ci sono state diverse interpretazioni che puntavano sull’occulto, immaginando segreti che i maestri pipernai si trasmettevano oralmente. Qualcosa che riguardava l’alchimia. Sarebbero servite a convogliare le energie positive dall’esterno all’interno dell’edificio. Un’interpretazione tipicamente rinascimentale che trascinava con sé una leggenda.
L’imperizia degli operai che lavorarono alla realizzazione delle bugne a punta di diamante avrebbe fatto collocare le pietre in modo scorretto. Per questo le energie positive si sarebbero trasformate in negative, attirando sul palazzo numerose sciagure (l’ultima, durante la seconda guerra mondiale, con la caduta di una bomba proprio sul soffitto della navata che però, miracolosamente, non esplose). Qualcosa non quadrava nell’ interpretazione esoterica dei simboli. E un motivo c’era. Non si trattava di magia, ma più semplicemente e profanamente di musica, sebbene travestita in lettere semitiche e legata alla filosofia di ascendenza pitagorica che ha da sempre cercato l’armonia degli astri. L’attuale chiesa insiste su un palazzo civile, privato, completato nel 1470 da Novello da San Lucano, per i potenti Sanseverino.
Fu confiscato da Pedro di Toledo, nel 1547, perché la nobile famiglia appoggiò la rivolta popolare contro l’Inquisizione, e fu donato ai gesuiti che conservarono con poche variazioni la facciata civile, rendendo unica la basilica. L’uso di segni che componevano una musica non era inusuale negli anni del tardo umanesimo.
«Gli stessi Sanseverino» racconta De Pasquale «fecero incidere dei simboli musicali nel loro palazzo a Lauro di Nola e un codice armonico misterioso è sulla facciata di palazzo Farnese a Roma».
Ma come mai s’era persa la memoria delle «note aramaiche»? De Pasquale l’attribuisce alla Controriforma che definì nuove e rigide norme per la pittura e per l’arte in genere, cancellando a
poco a poco le tracce di originalità terrene che collidessero con le verità trascendenti del cattolicesimo tridentino. E i gesuiti furono i baluardi della nuova catechesi. Ironia della sorte, ad aiutare De Pasquale nella soluzione del problema è stato proprio un padre gesuita ungherese, Csar Dors, della lontana Eger, esperto di aramaico.
Ma il grosso l’ha fatto un musicologo, sempre magiaro, Lòrànt Réz, amico dello storico napoletano. «Proprio ad Eger, davanti a un piatto di gulasch e un bicchiere di tokai» racconta il Robert Langdon nostrano «Lòrànt cominciò a far concordare lettere e note, abbozzando lo spartito, scrivendolo sul retro del menù di un ristorante».
Il concerto è stato intitolato «Enigma», ed è stato trascritto per organo, invece che per strumenti a plettro. «È musica rinascimentale che segue i canoni gregoriani» aggiunge De Pasquale che, per darne, un’idea, ne fa ascoltare una registrazione sul telefonino. Il suo sogno è quello di eseguirla
in pubblico proprio al Gesù Nuovo, restituendo a Napoli un frammento della sua storia infinita.
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